Per la prima volta l’Autore, cultore appassionato della poesia in rima, come dimostrato nelle precedenti opere, si dedica a composizioni con versi liberi (esclusa una), cioè sciolti da ogni costrizione di metro e di rime. Probabilmente un’esigenza formale derivante dalle necessità di fissare la fase dei ricordi infantili in un modo meno canonico, meno vincolato, appropriandosi di una maggiore libertà espressiva , che alcune volte sconfina nella prosa poetica. E ritornando verso l’infanzia, alla scoperta di quel Fanciullino, nonché una certa tendenza all’ideale pauperistico, di pascoliana memoria, propone nuovamente, in particolare con il ricordo dei nonni materni (di nuovo Pascoli con la poetica dei cari estinti), quell’humus di cultura contadina e popolare, alla quale ci ha abituati con i libri precedenti. Un percorso a ritroso, con la conseguente nostalgia del tempo trascorso e una disamina scoraggiata della contemporaneità, non per antimodernismo snobistico, ma per convinzione culturale. Ed estremizzando, il rifiuto del sistema villaggio globale (data l’aggettivazione, una contraddizione in termini, come perentoriamente è detto in una composizione), o almeno la sua valutazione fortemente critica, sembra spingere l’Autore verso un utopistico villaggio rurale (componente autobiografica evidente), come possibilità di condizione esistenziale e convinzione di appartenenza, insomma un percorso di “deglobalizzazione” a ritroso nel tempo, senza cadere nel rischio, particolarmente letterario, di una ricerca, più volte storicamente sfruttata, della fatidica età dell’oro, attento ad evitare, comunque, un manierismo contadinesco e concedendosi qua e là al bozzettismo, come commozione del ricordo. Da notare infine l’influenza nelle composizioni esercitata da auctores del mondo contadino, come Ignazio Silone, Corrado Alvaro e Rocco Scotellaro.