Viterbo è per eccellenza la città delle torri; e perciò il mio primo pensiero fu di salire su quella dell’Orologio, la più alta di tutte: essa è di quarantadue metri. Per avere la prima idea di una città di media grandezza è più utile ispezionare da se stessi il rilievo che affidarsi alle planimetrie delle guide. Si mostra così nel suo insieme, col suo colore naturale, unita alla campagna che la circonda e di cui vive. Da quel belvedere Viterbo appare, sotto il sole rivelatore, irregolare e bizzarra, come conviene a una città della sua età. A sud-ovest, i monti Cimini sbarrano l’orizzonte con una linea larga, massiccia, potente. Queste montagne che i Romani, trattenuti da non so quale timore superstizioso, esitarono lungamente a valicare, erano coperte, cinque secoli prima della nostra èra, da una foresta che Tito Livio qualifica “più impenetrabile e spaventosa” dei boschi della Germania. La catena dei Monti Cimini si abbassa gradualmente dal lato del mare. Per un declivio lungo, dolce, quasi insensibile gli ottocento metri si portano al livello del mar Tirreno. Viterbo è costruita nel mezzo di tale declivio sopra un suolo ineguale; i suoi dintorni sono verdeggianti, e come una cintura di chiaro smeraldo circondano la città dai foschi colori. Verso il mare il panorama si prolunga a perdita d’occhio fra vapori di azzurro pallido e di rosa tenero. A levante, Montefiascone brilla al sole sulla sommità che nasconde alla nostra vista il lago di Bolsena.