“Nulla è più baudelairiano di Phèdre; non c’è nulla che sia tanto degno di Racine quanto le Fleurs du Mal. Tra i due poeti c’è però una leggera differenza: Racine è più immorale”. Con questi paradossi Marcel Proust scompaginava i luoghi comuni “criticamente corretti” che ancora dominavano cent’anni fa. Per i professori di scuola media il teatro di Racine era allora il non plus ultra del cosiddetto classicismo, cioè il trionfo dell’ordine, della ragione, dell’equilibrio espressivo. Era insomma l’esatta antitesi della “modernità” di Baudelaire, poeta “maledetto” e condannato. Agli studenti quelle vecchie tragedie seicentesche erano proposte come edificanti palestre in cui esercitarsi alla virtù, e l’uomo Racine, che era passato attraverso un’intensa conversione religiosa, finiva per apparire come un severo e uggioso pedagogo. È vero il contrario: le più forti radici della modernità affondano nei secoli passati e molto incerto è il confine che separa i grandi santi dai grandi peccatori. Se un giorno ci capiterà di chiederci “Racine, chi era costui?” vorrà dire che avremo perso un pezzo importante della nostra identità, perché non solo la Francia ma anche molte altre nazioni europee avevano visto in questo scrittore un punto di riferimento fondamentale. È dunque giusto ripubblicare Racine, interpretarlo, tradurlo, discuterne insieme.