Ancora oggi, a sessant’anni dalla fine del secondo conflitto mondiale, scrivere sulla città di pietra a Roma tra il 1922 e il 1943 obbliga ad una dichiarazione di intenti. Se è vero che lo storiografo è sempre condizionato dal suo ambiente sociale e dalla sua formazione culturale, è altrettanto vero che lo stesso storiografo (pur non illudendosi di essere oggettivo e super partes) può tentare di essere imparziale ed equidistante, evitando di studiare soltanto la documentazione che rafforzi le sue tesi precostituite. Nello stesso tempo può cercare di narrare gli eventi senza dover necessariamente giudicare; può tentare di scrivere come sono andati effettivamente gli avvenimenti (almeno per quello che è documentabile); ricollocandoli nel clima e nella mentalità del loro tempo. Questa sistemazione provvisoria dei dati disponibili sul ventennio fascista e la capitale non vuole essere un saggio di storia dell’urbanistica o di storia dell’architettura, ma vorrebbe essere un tentativo di storia urbana, intesa come storia del concretamente costruito, demolito, trasformato, riusato. Ad esempio non affronta le vicende dei concorsi pubblici e quella dei progetti architettonici non realizzati, i quali hanno avuto un grande impatto sulla cultura architettonico-urbanistica e sul dibattito culturale del tempo, ma sono stati metabolizzati nello sviluppo edilizio di una città, che dai tempi di Costantino è la capitale del riuso.